L’olio extravergine di oliva di Sardegna
L’ulivo è simbolo di fecondità, pace, purificazione, forza, vittoria, ricompensa. Si dice che l’ulivo di Atena, protettrice di Atene proprio grazie al dono dell’ulivo, fosse conservato all’Eretteo. Nella Bibbia Noè riceve la notizia della fine del diluvio universale vedendo tornare la colomba, da lui inviata, con un ramoscello d’ulivo.
Del resto in Europa meridionale la base della dieta è sempre stata composta da pane, vino e olio.
A proposito dei condimenti il famoso gastronomo Pellegrino Artusi ha detto che “Ogni popolo usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese”: nel caso della Sardegna l’olio d’oliva è da sempre un prezioso alleato della cucina e della salute, con i suoi grassi insaturi e le sue vitamine, e costituisce si dice uno dei segreti della longevità dei Sardi.
Il mito narra che Aristeo, eroe culturale greco, portò in Sardegna le tecniche per produrre l’olio millenni addietro. L’isola intera è ricchissima di olivastri, in larga parte innestati nel corso dei millenni, e di pregiate cultivar di olive, gli uliveti sono sparsi in tutta l’Isola con predilezione per le zone di Alghero e Bosa, del Montiferru, di Oliena, del Medio Campidano e Monte Linas, del Parteolla. La composizione dei terreni sardi, l’esposizione ai venti e al sole rendono gran parte del territorio isolano naturalmente vocato per la coltura dell’ulivo.
La Sardegna ha una produzione importante dal punto di vista qualitativo, e gli olii extravergini sardi si sono distinti nei concorsi nazionali e internazionali vincendo prestigiosi premi. In tutta l’Isola sorgono numerosi oleifici sociali o privati, con impianti all’avanguardia e tecnologie raffinate per allungare la shelf life dei propri prodotti, in modo da garantire una qualità al prodotto costante e di più lunga durata.
Olio extravergine di Oliva
Olive in salamoia
Concludiamo anche in questo caso citando il Premio Nobel Grazia Deledda, che ci ha lasciato una bella descrizione di un frantoio tipico dei primi del Novecento nel romanzo Cosima.
«Attiguo alla casetta dei fratelli, c’era, anch’esso di proprietà della famiglia, un frantoio per olive: era un lungo stanzone irregolare, scuro eppure lucido, come scavato in una montagna di schisto: nero, come unto anch’esso, era il forte cavallo paziente che faceva girare la ruota dentro la vasca rotonda dove venivano pestate le olive: la pasta violacea di queste, versata entro sporte rotonde, la spremeva il torchio di ferro; ma il torchio, collocato in una specie di nicchia scavata nella parete, erano gli uomini che lo manovravano, con una stanga: il mugnaio o un suo aiutante. L’olio cadeva nero e grasso entro un grande paiuolo, e le sanse, finita di spremere la pasta, venivano buttate da una larga finestra giù nell’orto, formando un monticello odoroso che a suo tempo veniva acquistato dallo stesso negoziante che in estate comprava le mandorle della famiglia: ed era una discreta rendita, assieme con quella dell’olio, che i proprietari delle olive lasciavano in compenso per la manipolazione. Ma bisognava stare molto attenti, perché il mugnaio, un piccolo uomo religioso con due occhi di vero santo, che serviva da anni e anni la famiglia, e le era sinceramente affezionato, rubava a man salva, tanto ai clienti quanto ai padroni.
Il luogo era sempre pieno di gente, anche perché in un angolo, tra la finestra e il torchio, ardeva sempre un grande fuoco con su un paiuolo d’acqua bollente, dove venivano immerse e lavate le sporte: e intorno a questo fuoco si riuniva un gruppo d’individui che, verso sera specialmente, formavano un quadro degno di Rembrandt»